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Categoria: Esteri
di Agnese Licata

La netta sconfitta elettorale dello scorso novembre non sembra aver insegnato molto a George W. Bush. Nonostante la contrarietà dell’elettorato americano alla sua politica estera, Bush continua ad andare avanti per la sua strada. Non solo non rinuncia all’idea di risolvere la drammatica situazione irachena attraverso l’aumento delle truppe, ma presenta un bilancio federale che anche per il 2008 continua a dirottare le risorse dal sistema sociale all’esercito; dall’assistenza sanitaria pubblica al Pentagono. Queste le cifre che Bush ha proposto al Congresso lunedì. Su un bilancio totale pari a 2.900 miliardi di dollari, il Presidente degli Stati Uniti vorrebbe dedicare ben 716,5 miliardi a spese militari varie. Di questi, 235 miliardi andrebbero alle missioni all’estero in Iraq e Afghanistan, tra i quali anche i 6 miliardi necessari per spedire 21.500 soldati stelle e strisce nell’ex regno di Saddam Hussein. Il resto, pari a 481 miliardi di dollari, sarebbe destinato a spese militari “ordinarie”. Sempre se può definirsi “ordinario” aumentare il numero degli arruolamenti in presunto tempo di pace. L’idea è infatti quella di aggiungere al corpo dei Marines 202mila soldati (+15%) e all’esercito 547mila uomini (+13%).

Il risultato è che, a fronte di un bilancio totale che rispetto all’anno precedente varrebbe un +4,2%, le risorse destinate alla Sicurezza interna e alla Difesa salirebbero vertiginosamente, con un 11% in più. C’è quindi, nei conti di George W. Bush, un 6,8% di spese militari da coprire tagliando da altri settori. Il tutto, senza toccare le riduzioni sui redditi alti, tanto care al Presidente e al suo elettorato. La soluzione proposta, allora, prende di mira, quasi inevitabilmente, pensionati e poveri. Loro, del resto, non vantano lobby al Congresso. I tagli riguardano infatti i due programmi statali per l’assistenza sanitaria: Medicare (dedicato a chi ha più di 65 anni) e Medicaid (per i poveri). Rispettivamente, nei prossimi 5 anni, dovranno fare a meno di 66 e 12 miliardi di dollari.

Insomma, il presidente Bush sembra puntare ad aumentare, invece che ridurre, la distanza tra le classi privilegiate e le fasce più svantaggiate della popolazione americana. “Il mio budget riflette le priorità del Paese: proteggere la patria, lottare contro il terrorismo”, ha affermato limpidamente Bush. E tra queste priorità non sembra esserci neanche l’ambiente. Nonostante non passi giorno senza che un rapporto internazionale o qualche ricerca scientifica non denunci la necessità d’interventi decisi e globali a favore della salvaguardia ambientale, il presidente degli Stati Uniti propone di ridurre lo stanziamento di fondi pubblici per l’”Environmental protection agency” e, contemporaneamente, di spendere 170 milioni in più per aumentare le riserve strategiche di petrolio, riportandole a 727 milioni di barili.

La critica più dura alla proposta di Bush è arrivata dal democratico Kent Conrad, presidente della commissione Bilancio al Senato. “Il budget del Presidente – ha dichiarato senza mezze parole – è pieno di debiti e inganni, ignora la realtà e spinge l’America nella direzione sbagliata”. Gli inganni a cui il senatore Conrad si riferisce riguardano l’obiettivo sventolato da Bush di ridurre i bilanci dello Stato fino ad arrivare al 2012 con un surplus di 61 miliardi. Gli anni repubblicani, infatti, hanno fatto registrare, bilancio dopo bilancio, deficit da record, con un picco di 413 miliardi nel 2004. “Voglio porre le basi per il risanamento di chi mi succederà”, ha spiegato in modo poco convincete il presidente degli Stati Uniti.

Questo è quello che Bush ha proposto. Adesso la decisione passa nelle mani del Congresso. È infatti il Congresso a dover dare l’ultimo voto sul bilancio federale, senza necessariamente accettare i conti messi sul tavolo dalla Casa Bianca. Il Parlamento americano dispone di un organo specifico - il Congressional budget office (Cbo) – preposto proprio a fare previsioni di spesa e proiezioni di crescita. A determinare quanto dei progetti dell’Esecutivo confluirà nel bilancio finale, è soprattutto la maggioranza cui il partito del Presidente può godere al Congresso. E questa, dopo le elezioni di metà mandato, non sembra essere la migliore carta da giocare per Bush.